
COMMENTO
L’Ungheria è solo un altro teatro della guerra culturale
Tratto e tradotto da un articolo di opinione di Mike Gonzalez per il Washington Examiner
Perché l’amministrazione Biden finanzia le agitazioni in Ungheria, un alleato della NATO con una popolazione filoamericana? Non ha nulla a che fare con la sicurezza nazionale. L’Ungheria può trovarsi strategicamente al crocevia dell’Europa, ma ciò che irrita i liberal alla Casa Bianca è che il suo governo difende i valori occidentali.
Questo è imperdonabile per la West Wing e per il Dipartimento di Stato, così come lo è per i grandi finanziatori di Sinistra in posti come Arabella Advisers e la Tides Foundation, per l’apparato dei think tank progressisti, per le ONG e per la rete di organizzazione degli attivisti – l’insieme che sembra guidare tanta politica che vendiamo in questi giorni.
Come ha detto Jake Sullivan, consigliere di Biden per la sicurezza nazionale, “abbiamo raggiunto un punto in cui la politica estera è politica interna e la politica interna è politica estera“. L’Ungheria è solo un altro teatro della guerra culturale.
È questo contesto che bisogna tenere a mente per capire il recente viaggio a Budapest di Samantha Power, capo dell’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale.
“È bello essere qui a Budapest con @USAmbHungary”, ha twittato il 9 febbraio, “dove @USAID ha appena rilanciato nuove iniziative a livello locale per aiutare i media indipendenti a prosperare e raggiungere un nuovo pubblico, combattere la corruzione ed aumentare l’impegno civico”.

Il motivo per cui l’USAID spende i soldi dei contribuenti statunitensi in Ungheria, per non parlare dei media ungheresi, dovrebbe lasciare perplessi. Come persona che concede interviste ai media ungheresi, sia in loco che a distanza dagli Stati Uniti, posso testimoniare che in Ungheria ci sono sia media pro che anti-governativi.
Non è chiaro chi saranno i partner locali dell’USAID in Ungheria o se, come spesso accade, l’USAID collaborerà con le numerose reti di George Soros. Infatti, i conservatori ungheresi si aspettano che i media pro-Orban non vedranno nemmeno il becco di un centesimo mentre la stampa anti-Orban riceverà tutti i soldi del finanziamento.
L’itinerario di Samantha Power lo conferma. Secondo il sito web dell’USAID, durante il suo viaggio a Budapest del 9 e 10 febbraio, la Power ha incontrato i rappresentanti di diversi gruppi, tra cui il “Comitato ungherese per Helsinki”, che definisce Viktor Orban un “autocrate”; “K-Monitor“, altrettanto ostile; “Transparency International“, un’altra entità anti-Orban; e “l’Università Eotvos Lorand“, che si è lamentata di essere stata colpita dal divieto di Orban sugli studi di genere.
Samantha Power ha concluso la sua visita con degli incontri con alcuni ministri ungheresi, con i quali ha avuto “una candida conversazione” – che è un codice diplomatico per dire: “entrambe le parti si sono urlate contro”.
Samantha Power ha anche incontrato i rappresentanti delle “Comunità LGBTQI+, dove hanno discusso le esperienze delle persone LGBTQI+ in Ungheria e i loro sforzi per aumentare la comprensione, sostenere i gruppi emarginati e migliorare la vita delle persone LGBTQI+ in Ungheria”.

Si tratta di un argomento molto delicato per molti ungheresi, che temono che l’amministrazione Biden spinga in Ungheria lo stesso tipo di ideologia del gender che ha prodotto tanta opposizione in America. Le mutilazioni corporali e l’amputazione di parti sane del corpo, soprattutto tra i minorenni, non dovrebbero avere lo stesso successo nell’Ungheria conservatrice, anche se ammantate dall’eufemismo che la Sinistra chiama “cure per l’affermazione del genere”.
Anche l’ambasciatore americano David Pressman ha scelto di assumere una linea bizzarramente antagonista nei confronti del Paese che lo ospita (che è, ancora una volta, un alleato degli Stati Uniti).
L’11 febbraio, appena un giorno dopo la partenza di Samantha Power, l’ambasciatore Pressman ha pubblicato un tweet in cui criticava l’Ungheria per aver “valorizzato“ i nazisti. Gli ungheresi indispettiti fanno notare che alla marcia a cui fa riferimento c’erano 50 estremisti – sì, 50 di troppo, ma un terzo rispetto ai 150 combattenti Antifa presenti sulla scena.
L’ambasciatore si è comportato da attivista politico qual è. È stato l’avvocato personale del tenente colonnello Alexander Vindman, che ha provocato l’impeachment del presidente Donald Trump per la sua telefonata con il presidente dell’Ucraina, e lavora a stretto contatto con l’icona liberal di Hollywood George Clooney, che pare lo chiami “Cuz”.
Il problema è che ora è l’ambasciatore americano. Come ha scritto POLITICO a novembre in un articolo accattivante, “in soli due mesi di lavoro, il nuovo ambasciatore americano è diventato un nome familiare a Budapest per la sua disponibilità a criticare – e persino a trollare – il governo di Orban”. Non proprio diplomatico.

Come se non bastasse, l’ambasciatrice americana alle Nazioni Unite Linda Thomas-Greenfield ha offeso l’Ungheria accusandola di aver “vandalizzato un monumento all’Olocausto“. Solo che non è successo in Ungheria, ma in Svezia. Gli ungheresi che chiedono scuse non hanno ottenuto nulla.
Ho chiesto a Zoltan Koskovics, del “Centro per i Diritti Fondamentali” di Budapest, che mi ha risposto che “la setta Woke che ha preso il controllo del Partito Democratico non gradisce la posizione filo-occidentale del nostro governo. Abbiamo bisogno di un’America forte in una situazione internazionale pericolosa. Ma non di un’America “Woke“”.
Sono in gioco gravi questioni di sicurezza nazionale. Viktor Orban a volte si avvicina alla Russia e alla Cina, due nemici degli Stati Uniti. Tuttavia, prendersi gioco di questo alleato, purtroppo, alimenta la macchina della propaganda del Cremlino sui social media, che dipinge gli Stati Uniti come una “forza del male”. E nulla di ciò che fa l’USAID affronta le questioni di politica estera in gioco.
Circa sei anni fa, Brian Hook, allora direttore della pianificazione politica, scrisse in un promemoria quello che potrebbe essere uno dei migliori ragionamenti su come trattare alleati e nemici. Hook scrisse:
Una linea guida utile per una politica estera realistica e di successo è che gli alleati dovrebbero essere trattati in modo diverso – e migliore – rispetto agli avversari. Altrimenti, ci ritroviamo con più avversari e meno alleati. Il classico dilemma del bilanciamento tra ideali e interessi riguarda gli alleati dell’America. In relazione ai nemici, il dilemma è molto meno sentito. Non cerchiamo di rafforzare gli avversari dell’America all’estero; cerchiamo di fare pressione, di competere con loro e di superarli.
Forse questo è un approccio migliore della “Dottrina Sullivan“, che consiste nell’esportare le nostre guerre culturali all’estero.
Mike Gonzalez è senior fellow della Heritage Foundation e autore di “BLM: The Making of a New Marxist Revolution”.
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